Quando i privati comprarono lo Stato italiano

Quando si die che i “privati si sono comprati lo Stato italiano” si pensa sempre alle privatizzazioni.
Così facendo però si incorre in un errore.

Ebbene si, la lunga marcia verso l’acquisto delle risorse di Stato viene da molto più lontano. Siamo nel 1933 quando la prima pietra di una commistione letale tra una élite di privati e lo Stato italiano mette le basi della futura distribuzione indiscriminata di asset importantissimi.

Nel 1933 viene fondata l’Iri, Istituto per la Ricostruzione Industriale, che raggruppava, per salvarle e rimetterle poi sul mercato, un gruppo di banche di investimento, e di conseguenza le industrie da queste controllate, soprattutto nei settori della siderurgia, cantieristica e meccanica pesante.

Successivamente vennero alla luce Finsider, la Finmeccanica, la Fincantieri, la Finelettrica. Tutte creature dell’Iri. Durante i suoi anni di vita l’Iri inglobava, mangiava e manteneva sempre più industrie, aziende e ambiti finanziari. L’IRI non rimetteva però sul mercato le proprie industrie, ma continuava ad accumularle e a gestirle, non le importava nulla se queste fossero in attivo o in passivo, l’Iri le manteneva e le finanziava, se necessario, grazie al bilancio dello Stato.

Quando un’industria era in difficoltà, trovava sempre l’IRI come acquirente, il motivo, teorico, era di non far andare perse risorse produttive, con i relativi posti di lavoro. È chiaro che così i soggetti economici, anche privati, sono stati messi al riparo dal rischio imprenditoriale: se le cose andavano male sul mercato, lo Stato comprava.

Andando avanti negli anni si aggiunsero altri colossi statali che facevano sempre la stessa cosa: accumulavano e salvavano le industrie mal gestite. Eni, Ente Nazionale Idrocarburi, nel 1953 si occupò di gestire il settore del petrolio e del gas naturale, poi anche dell’energia nucleare. Il sistema di replicava poi in altri ambiti, Enel, Rai, Sip, Ferrovie, Banche. Il colosso Stato deteneva un terzo dell’economia totale dell’Italia.

Si ottiene alla fine un continuo scambio tra nomine di manager statali e finanziamenti, più o meno regolari da parte di questi manager ai partiti che li hanno eletti, si crea un circolo vizioso dove ognuno ha il potere sull’altro, l’economia ha in mano i soldi che i partiti vogliono e i partiti i posti di rilievo che i manager desiderano.

Insieme a tutto questo rientrano anche i sindacati che parlano sempre più spesso e quasi solamente con i grandi manager di stato, che ovviamente non hanno problemi a lasciar passare le richieste dei sindacati che iniziano anche a politicizzarsi. L’economia privata così risente delle storture dovute a concessioni date dalle industrie di stato che però si riversano su quelle più piccole e scoperte del privato.

I sindacati osavano con le industrie statali in quanto queste potevano e volevano concedere in quanto al riparo dal mercato reale, in caso di deficit bastava succhiare dalle casse comuni. La stortura avviene poi quando lo stato sociale inizia ad essere il più avanzato, cosa buona ovviamente, ma che difende sostanzialmente solo chi il lavoro lo ha, e dimentica completamente chi deve ancora averlo o lo ha perso definitivamente. Le aziende sotto i 15 dipendenti sono escluse dai giochi decisionali e rimangono così nascoste al mercato globale.

Negli anni quindi il costo per lo Stato diventa enorme, immenso e insostenibile. Siamo nei primi anni 90, la situazione è ormai chiara, lo Stato non riesce a sostenere, o forse non vuole, sostenere tutto il carico di aziende, banche ed enti che ha creato nei decenni precedenti.

Inizia, da un discorso molto noto, di Mario Draghi. Il 2 giugno 1992 il panfilo Britannia, di proprietà della Corona inglese, ospitò un convegno sulle prospettive delle privatizzazioni in Italia. Discorso introduttivo fu del direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Sebbene i relatori si concentrarono sulle difficoltà del processo, il Britannia è visto come il momento in cui i fondi internazionali si accordarono per comprare a prezzi di saldo il patrimonio pubblico.

Si trovano molti nomi, alcuni palesemente inventati, di persone che erano sul quel Panfilo quel giorno, un racconto di una cerchia di eletti che avrebbero poi preso tutto quanto il tesoro dello Stato e ingoiato letteralmente beni per miliardi di lire.

La realtà dei fatti è comunque che la privatizzazione, a detta anche della Corte dei Conti, non troppo chiara, ne fatta bene, ci fu, e fu una svendita immane di beni di tutti gli italiani.

L’elenco che in quegli anni imprenditori e finanzieri di tutto il mondo comprarono o parteciparono insieme allo Stato è lungo, solo per citare alcuni nomi: Eni, Snam, Agip, Ferrovie, Enel, Autostrade, Banca Commerciale Italiana, Credito italiano, Imi, STET, Ina e così via.

Soprattutto per quanto riguarda gli asset più strategici ci fu in seguito, ed Autostrade è l’esempio più lampante, un aumento di tariffe e costi per i cittadini. Dalla Luce, Gas, Benzina, Autostrade, Poste, i privati che si appropriarono di tutte quelle aziende iniziarono a introitare utili in una quantità mai vista.

Il cerchio, in un certo senso si era chiuso: lo Stato ha creato Enti che salvavano aziende private, gli enti ingrossavano sempre di più le loro fila, le sostenevano in modo abnorme con soldi pubblici, quando queste aziende erano diventate dei giganti, lo Stato le vende ai privati.

I privati, si erano comprati lo Stato. Ma non fu certamente la privatizzazione il momento in cui se lo accaparrarono, ma dal momento in cui lo Stato iniziò a farsi carico dei fallimenti del privato.

Ora noi ci chiediamo come mai tutti i grandi asset strategici italiani non sono in mano del nostro Paese, ma è molto semplice: non lo sono mai stati.

Alessandro Trizio

Esperto in Cyberwarfare e Information Security. Ha studiato politica nazionale e geopolitica e vissuto in molti Paesi mediorientali dove ha approfondito i rapporti internazionali

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