La vertenza dell’ex Ilva di Taranto raggiunge un nuovo momento critico. Dopo un confronto teso a Palazzo Chigi tra il governo ei sindacati metalmeccanici, la crisi occupazionale del principale polo siderurgico italiano si aggrava in modo significativo con migliaia di lavoratori destinati alla cassa integrazione straordinaria. Il governo ha presentato un piano di decarbonizzazione della durata di quattro anni, ma le organizzazioni sindacali lo hanno rigettato in toto, definendolo un vero e proprio “piano di morte” dello stabilimento e chiedendo un intervento diretto del premier Giorgia Meloni per superare lo stallo negoziale.
Il vertice di martedì 11 novembre, presieduto dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, è durato tre ore e mezza prima di essere interrotto dai sindacati, che hanno abbandonato il tavolo dichiarando l’incompatibilità del piano governativo con i loro obiettivi di tutela occupazionale. Nel corso della riunione, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha illustrato una strategia che prevede una gestione transitoria della produzione a ciclo corto fino al 2026, manutenzioni straordinarie su altoforni e acciaierie, nonché l’arresto delle batterie di cokefazione per accelerare il processo di decarbonizzazione . L’obiettivo dichiarato è trasformare l’Italia nel primo paese europeo a produrre acciaio completamente verde, ma per le sigle sindacali questo rappresenta un tradimento degli impegni assunti precedentemente.
Dal 15 novembre, la cassa integrazione aumenterà da 4.550 a circa 5.700 lavoratori, cifra destinata a raggiungere i 6.000 dipendenti a partire dal 1° gennaio 2026 , quando entreranno in vigore i fermi delle batterie di cokefazione. Il governo ha assicurato che presenterà una norma legislativa specificatamente per garantire la copertura finanziaria dell’integrazione del reddito, ma questo non ha placato le preoccupazioni dei sindacati, che vedono in questi numeri l’inizio di una progressiva riduzione della base occupazionale dello stabilimento. Michele De Palma, segretario generale della Fiom, ha dichiarato senza mezzi termini: “Il governo ha presentato di fatto un piano di chiusura” .
I tre segretari generali delle sigle metalmeccaniche, Francesca Re David per la Cgil (in rappresentanza della categoria), Michele Uliano per la Fim, Michele De Palma per la Fiom e Pierpaolo Bombardieri per la Uilm, hanno tenuto una conferenza stampa in cui hanno confutato punto per punto la strategia presentata da Urso. Hanno dichiarato che il piano manca completamente di qualunque sostegno finanziario per il rilancio e la decarbonizzazione dell’impianto , e hanno criticato duramente il ministro per aver presentato una proposta che contraddice gli impegni presi nel precedente piano di agosto. I sindacati hanno insistito nel richiedere al premier Meloni di prendere personalmente in mano il tavolo di trattativa, superando quella che abbiamo una gestione fallimentare da parte del ministero.
” Eravamo stati convocati per discutere il piano di riconversione di agosto e ci hanno presentato un piano di chiusura dell’Ilva “, è stata la dichiarazione più dura durante la conferenza stampa delle tre singole. I sindacalisti hanno rimarcato che lo stabilimento di Taranto si risana e si rilancia a una condizione imprescindibile: ” L’intervento dello Stato come azionista e imprenditore è l’unica via per garantire il risanamento e il rilancio del gruppo siderurgico “. Questo messaggio rappresenta una rottura significativa rispetto ai precedenti approcci negoziali, dove almeno si discuteva della possibilità di trovare un investitore privato che potesse gestire lo stabilimento.
Il governo, attraverso il sottosegretario Mantovano e il ministro Urso, ha sempre cercato di mantenere aperte le porte a potenziali investitori internazionali. Durante il question time alla Camera dei Deputati, Urso ha infatti dichiarato che “sono tre i potenziali player internazionali interessati all’ex Ilva” e che il governo ha agito “in piena trasparenza”. Tuttavia, le fonti sindacali rivelano che una delle due offerte formali pervenute ammonterebbe addirittura a “un solo euro”, il che lascia intendere come la qualità delle proposte sia estremamente limitata. I sindacati sostengono fermamente che “oggi non esistono pretendenti all’altezza” e che non ci sono alternative al protagonismo statale.
La problematica della decarbonizzazione rappresenta uno dei punti più complessi della vertenza. Il governo sostiene di aver dato ascolto alle richieste degli enti locali tarantini, che chiedono una veloce transizione verso una produzione sostenibile dal punto di vista ambientale. Tuttavia, questa accelerazione avviene in un contesto dove già uno dei due altoforni precedentemente riattivati è finito sotto sequestro probatorio della magistratura, lasciando funzionante solo un’unità produttiva. Il piano prevede anche l’installazione di un impianto Dri (Direct Reduced Iron) a Taranto, un forno a riduzione diretta che dovrebbe rappresentare il futuro della produzione sostenibile, ma la tempistica di realizzazione rimane vaga e collocata oltre l’orizzonte dei quattro anni in discussione.
Un altro elemento di criticità riguarda l’approvvigionamento energetico. Urso ha spiegato che attraverso il gasdotto è difficile garantire la quantità di gas naturale necessaria per gli impianti, e che il governo sta lavorando intensamente per assicurare almeno il gas sufficiente per gli impianti essenziali e per almeno un impianto Dri. Questa situazione rappresenta un ulteriore vincolo significativo alla capacità produttiva dello stabilimento nei prossimi anni, di cui i sindacati hanno tenuto conto nel rigettare il piano.
La questione della continuità produttiva ha assunto un’importanza centrale nel dibattito. Il piano prevede il passaggio a un regime di “ciclo corto” già dal 15 novembre, il che comporterebbe una interruzione della produzione prima che i rotoli raggiungano il loro stadio finale di rivestimento. Ciò avrebbe conseguenze significative anche per i dipendenti degli stabilimenti del Nord Italia, particolarmente a Genova, dove la Cornigliano dovrebbe ricevere i semiprodotti da Taranto per le linee di zincatura, stagnatura e cromatura. Le stime indicano che circa mille lavoratori nel Nord potrebbero entrare in cassa integrazione, con una concentrazione di circa 600 unità nella sola Genova.
La Fiom ha adottato un linguaggio particolarmente vibrante nel difendere i posti di lavoro del Nord, affermando che “su quelle aree ci sono 1.200 codici fiscali che difenderemo in tutti i modi”. Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, si è aggiunto alle critiche, sottolineando che “oggi non ci sono alternative allo Stato” e invitando il governo a costituire rapidamente un’azienda pubblica che possa assumere il controllo gestionale dello stabilimento e della transizione industriale.
La società civile tarantina si è divisa sulla questione. Il movimento Giustizia per Taranto ha affermato che “l’ex Ilva è arrivata al termine del suo ciclo industriale” e ha sostenuto che la chiusura dell’area a caldo rappresenta una necessità storica più che una tragedia, poiché la fabbrica non ha mai garantito salute alla popolazione oltre al lavoro. Il Partito della Rifondazione Comunista di Taranto, dal canto suo, ha denunciato “l’assenza di una strategia industriale pubblica e sostenibile” e ha accusato il governo Meloni di aver scaricato il fallimento della gestione privata sulle spalle dei lavoratori attraverso la cassa integrazione.
Dopo il rifiuto dei sindacati di proseguire il tavolo negoziale, il governo ha espresso “rammarico”, ma ha convocato una nuova riunione per martedì 18 novembre alle 15 presso la Sala Verde di Palazzo Chigi , al fine di “riprendere il dialogo sulle prospettive occupazionali dei lavoratori del polo siderurgico”. Le organizzazioni sindacali, intanto, hanno convocato assemblee a tappeto presso tutti gli stabilimenti nei giorni immediatamente successivi al fallito vertice, al fine di informare i lavoratori della situazione e decidere collettivamente le forme di mobilitazione da mettere in campo.
La tensione all’interno del conflitto rischia di aumentare ulteriormente nelle prossime settimane. I sindacati hanno fatto capire chiaramente che il loro impegno è massimo nel preservare tutti i posti di lavoro e che sono disposti a ricorrere a tutte le forme di lotta sindacale qualora il governo non modifichi significativamente la propria posizione. Nel frattempo, la certezza è che dal prossimo mese, migliaia di lavoratori dell’ex Ilva entreranno in un regime di cassa integrazione , con importanti ripercussioni sul reddito delle famiglie e sulla stabilità occupazionale di un’area già profondamente segnata da difficoltà economiche e sociali.